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“…potrai con poche gocce di vino scrivere leggere lusinghe così che sulla tavola lei legga d’esser la padrona del tuo cuore…”

P.O.N.

Prima dei Greci

Le primissime tracce archeologiche relative alla coltivazione della vite in Calabria sembrerebbero risalire al principio del I millennio a.C., quindi precedenti di qualche secolo l’inizio della colonizzazione di quella che verrà chiamata “Magna Graecia”. Esposto al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria è un dolio, un grande vaso in terracotta adoperato per contenere alimenti liquidi o solidi, munito di coperchio quadriansato. Rinvenuto casualmente a Tropea durante lavori edili, e risalente al Bronzo Medio (XIV sec. a.C.), in base agli studi, avrebbe contenuto del vino, per poi, infine, essere utilizzato come sarcofago, nell’ambito di un rito funebre che prevedeva l’inumazione del defunto in posizione fetale, simbolico ritorno al grembo della Madre Terra. Si può quindi dedurre che siano stati già i primi contatti con l’Oriente del Mediterraneo, intensissimi per ragioni commerciali, e molto precedenti alla colonizzazione greca delle coste calabresi, a far conoscere il vino nell’Italia Meridionale, e diffonderne il consumo prima, e la produzione poi. Forse non a caso, è all’epoca della guerra di Troia, quindi alla fine dell’Età del Bronzo, che si rifanno alcune leggende calabresi sulla vite la cui coltivazione e trasformazione, da lì a breve, si svilupperà in maniera tale da portare i Greci colonizzatori a chiamare Enotri gli italici che popolavano la regione, ed Enotria quest’ultima.

Il Simposio

La grande circolazione della bevanda nel Mediterraneo, soprattutto intorno alle coste della Calabria, è attestata anche dai tanti relitti, come quello di Porticello, che trasportavano centinaia di anfore contenenti, insieme a grano ed olio, anche grandi quantità di vino. Ma le testimonianze archeologiche più interessanti sono quelle rinvenute nelle necropoli: per il territorio intorno a Vibo Valentia, ossia l’antica Hipponion magnogreca, il promontorio del Poro e la rupe di Tropea, gli scavi hanno portato alla luce un’ingente serie di materiali afferenti al simposio, quel momento fondamentale della società greca già descritto dai poemi omerici, sacro e politico insieme, in cui tutto è cerimoniale, anche semplicemente le sedute, diverse in base alla scala gerarchica dei convitati, ed in cui ci si ritrovava per discutere di politica, letteratura, filosofia, intonare canti ed ascoltare musica, e lasciarsi andare anche ad effusioni erotiche. Al Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia, che presenta il materiale dell’antica subcolonia locrese, sono presenti numerose coppe, e grandi crateri, enormi vasi dall’ampia bocca che servivano per preparare il vino, che era sempre diluito con acqua, e condito con miele e spezie. Pregevole, tra i tanti, un piccolo e prezioso frammento di cratere a figure nere raffigurante Dioniso con la barba rossa e il capo cinto da tralci di vite. Il simposio si diffonde anche tra le popolazioni indigene stanziate sulle zone collinari dell’entroterra: nella zona di Sant’Agostino-Cava Vigne, sono stati recuperati corredi provenienti da tombe di popolazioni autoctone con significative importazioni greche, in particolare una serie di kilykes di tipo B2 della prima metà del VI sec. a.C., coppe ioniche a stelo e vernice nera, e soprattutto un kantharos, la coppa del dio del vino, di impasto buccheroide, importato dall’Etruria, conservati presso il Museo Diocesano di Tropea. Sempre qui si espongono altre importanti testimonianze, provenienti dalla stessa città, e risalenti all’epoca ellenistica (IV sec. a.C.), quali coppe a vernice nera che, nelle forme esili e slanciate e nel colore, riproducono l’effetto del coevo vasellame metallico. Inoltre, attualmente nei depositi, e proveniente da Largo Duomo, frammenti di un cratere a calice.

Dioniso, il vino e l’aldilà

Oltre al kantharos di cui sopra, a testimoniare in maniera inequivocabile la presenza del culto del dio del vino, importantissimo è un altro eccezionale reperto, rinvenuto sul petto di una donna seppellita nella necropoli “INAM” a Vibo Valentia: la celeberrima lamina “orfica” (ora al Museo Archeologico Nazionale dello stesso capoluogo), relativa, secondo la maggior parte degli studiosi, ai culti misteriosofici legati alla figura di Orfeo, che nella parte finale del testo, recita: « […] percorrerai la sacra via su cui anche gli altri mystai e bacchoi procedono gloriosi»; i “bacchoi”, sarebbero proprio i dediti al culto di Dioniso, talmente presente e forte in Calabria che proprio a Tiriolo (CZ) è stata rinvenuta l’unica copia, redatta su lamina in bronzo, del Senatus Consultus de Bacchanalibus (Vienna, Kunsthistorisches Museen), che vietava, per motivi di ordine pubblico, i riti bacchici in Italia.